II

FRA VITA E POESIA: L’EPISTOLARIO

La vita dell’Ariosto trova il suo centro profondo e la sua meta alta nella disposizione alla poesia come zona superiore e perfetta, in cui l’uomo riporta la sua esperienza umana in una specie di grande viaggio della fantasia che può spaziare in luoghi e tempi smisurati e nuovi muovendo dalla base di una esperienza limitata, ma concreta e profonda.

È una posizione che l’Ariosto stesso raffigura in un autoritratto significativo di «viaggiatore sedentario» (nella Satira III), contrapponendo l’errare irrequieto e mai soddisfatto di un viaggiatore sulla terra e il suo viaggio sul mappamondo, nella quiete della casa e della concentrazione fantastica:

Chi vuole andare a torno, a torno vada:

vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;

a me piace abitar la mia contrada.

Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,

quel monte che divide e quel che serra

Italia, e un mare e l’altro che la bagna.

Questo mi basta; il resto de la terra,

senza mai pagar l’oste, andrò cercando

con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra;

e tutto il mar, senza far voti quando

lampeggi il ciel, sicuro in su le carte

verrò, piú che sui legni, volteggiando[1].

(vv. 55-66)

Si potrebbe dire una vita per la poesia, ma una vita pur calda di affetti, di sentimenti, di esperienze, di meditazioni sulla sorte umana, e un rapporto tra vita e poesia distinte e rispettate nel loro diverso piano eppure non considerate tra loro indifferenti od opposte: né intrusione esterna della vita nella poesia e autobiografismo in questa, né confusione fra vita e poesia e vita costruita in chiave poetica (come avvenne spesso nei romantici e nei decadenti).

Anzitutto vita esemplare per la sua essenziale misura, per la sua schiettezza e semplicità mai atteggiata e falsificata in forme vaticinanti, oratorie, scolastiche. Vita di fuochi tranquilli, e tuttavia non tale da rassomigliare a quella di un epicureo sornione, indifferente ed ingenuo. Ché, come non mancò all’Ariosto (e lo vedremo meglio parlando dell’Orlando Furioso) un sentimento sicuro della crisi storica che l’Italia attraversava, malgrado la sua floridezza artistica e culturale, cosí non gli mancò l’avvertimento degli aspetti dolorosi della vita, delle profonde e amare irrazionalità che compaiono:

in questa assai piú oscura che serena

vita mortal, tutta d’invidia piena[2].

(IV, 1, vv. 7-8)

Solo che a questi sentimenti risponde nell’Ariosto, consapevole della presenza di valori e di disvalori nell’uomo (fedeltà, amore, amicizia, eroismo, generosità e di contro invidia, ipocrisia, prepotenza, malvagità), non una protesta, un rifiuto attivo, una denuncia, una conclusione drammatica, né tanto meno una rivolta metafisica e pessimistica, ma il riequilibramento di un fondamentale virile ottimismo, una fiducia nella vita e nella sua armonia (anche se frutto piú della «fortuna» che di una provvidenza), una volontà di adesione alla condizione umana, ai suoi stessi limiti, e ai valori medi del suo tempo storico, al modo medio e comune di vivere di tutti gli uomini per una essenziale esigenza di non perdere il contatto con la comune umanità e la sua concretezza, schiettezza, naturalezza.

Cosí, sul piano storico-personale, l’Ariosto vive la sua stessa condizione di cortigiano senza sdegni brutiani e libertari e senza viltà e stupido conformismo, sentendone dolorosamente gli eccessi servili (e perciò il Tasso, poeta di epoca manieristica e controriformistica, lo rimproverò di essere stato «freddo» cortigiano, col suo rifiuto di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria), ma insieme accettandone la ragione storica e sociale. Cosí in politica egli accetta le ragioni del regime delle signorie rinascimentali, il loro ordine politico e sociale, di cui egli teme il turbamento da parte di congiure e di tumulti popolari: e questo può ben vedersi da quell’ecloga I, in cui egli prende posizione contro la congiura di Giulio e Ferrante d’Este contro Alfonso e Ippolito anche per la convinzione che ne sarebbe conseguito un rilevante disordine sociale:

Prima ai nimici, e poi veniano a’ ricchi,

fingendo novi falli e nove leggi,

perché si squarti l’un, l’altro s’impicchi […].

Qual cosa non faria, qual già non fece

un popular tumulto che si trove

sciolto, ed a cui ciò ch’appetisce lece[3]?

(vv. 211-213, 220-222)

E cosí rispetto alla religione egli, che fu caro a Voltaire anche per la sua ironia sparsa a piene mani, nel Furioso, su frati ed eremiti, e che certo vive una prospettiva tutta terrena e mondana, decisamente antiascetica e ben poco «religiosa» (per tutto questo si veda avanti, al cap. VI della sezione II), non ha però posizioni di rottura e di critica a fondo. Pur pieno di intelligenza e di lucida razionalità, di intima libertà intellettuale e spirituale, egli rifiuta dissensi decisi, non solo per prudenza, ma soprattutto per un’antipatia verso le questioni teologiche e metafisiche e per la paura di perdere un contatto con le credenze piú comuni degli uomini, di uscire da una misura umana che permetta al poeta (il cui «studio è tutto umano») di comunicare con idee e sentimenti base della comune umanità e del suo tempo, e cosí di esserne interprete e voce poetica.

Sicché si capirà, nella Satira VI al Bembo e nella raccomandazione a lui di evitare un eretico nella scelta di un pedagogo per il figlio Virginio, la spiegazione che gli dà della diversa posizione del poeta rispetto al filosofo e ai suoi pericoli di cadere nell’eresia:

perché, salendo lo intelletto in suso

per veder Dio, non de’ parerci strano

se talor cade giú cieco e confuso.

Ma tu, del qual lo studio è tutto umano

e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,

il mormorar d’un rio che righi il piano,

cantar antiqui gesti e render molli

con prieghi animi duri, e far sovente

di false lode i principi satolli,

dimmi, che truovi tu che sí la mente

ti debbia aviluppar, sí tòrre il senno,

che tu non creda come l’altra gente?

(vv. 46-57)

Di fatto l’Ariosto si interessava soprattutto alla vita umana, nelle linee di una concezione antimoralistica, antiascetica, antimetafisica in cui lo stesso nobile entusiasmo per l’eroismo, la generosità e magari il sacrificio di se stessi (Isabella che si fa uccidere da Rodomonte per non rompere la fede al marito morto, Cloridano che muore per recuperare il cadavere del suo signore) ha per base una fondamentale persuasione del diritto della natura umana, del suo bisogno di funzioni concrete, della liceità e libertà degli istinti essenziali, educabili e ingentilibili, ma non falsificabili o disprezzabili moralisticamente.

Donde l’antipatia per l’ipocrisia e il moralismo, per l’ascetismo irrealizzabile senza una offesa alla natura umana. Donde il potente sentimento dell’amore che pur salendo fino all’idealismo si fonda su di un sano, spregiudicato diritto della sensualità insopprimibile in tutti gli uomini o donne degni del loro nome umano:

Tu forte e saggio, che a tua posta muovi

questi affetti da te, che in noi nascendo

natura affíge con sí saldi chiovi[4]!

(Satire IV, vv. 40-42)

Nobile edonismo e sentimento della integrità dell’uomo, con i suoi istinti e con le sue virtú, e insieme sentimento di dignità, di onore, capacità di energia e di decisione, accompagnata pure da una sicura dose di pietà e di bontà, sono gli elementi fondamentali che caratterizzano l’umanità ariostesca.

Documenti utilizzabili a meglio comprendere i sentimenti e gli atteggiamenti dell’Ariosto uomo e uomo storico sono sí tutte le sue stesse opere di poesia, ma, su di un piano piú immediato e pratico, importante documento (esso stesso non privo di dignità espressiva, esempio di una prosa epistolare che ha pure direzioni di decoro ufficiale, cancellieresco, diplomatico, ma che rifiuta volontariamente le forme piú aulicamente costruite della prosa «ciceroniana» per una sintassi piú libera e piú assecondante movimenti intimi e lucidi tentativi di coordinamenti di fatti e di riflessioni) sono le Lettere, ristampate in numero accresciuto in un volume a cura di Angelo Stella, e degne di una considerazione molto maggiore di quella tradizionalmente ad esse dedicata da una critica che distingueva ossessivamente nell’Ariosto l’uomo pratico dall’uomo poetico.

Già fra le lettere piú sporadiche degli anni passati al servizio del cardinale Ippolito e del duca Alfonso a Ferrara (una trentina, che vanno dal 1498 al 1522), parte delle quali scritte o a nome del cardinale o a lui dirette per informarlo, durante alcune sue assenze da Ferrara, di vicende cittadine o per rendergli conto di proprie missioni e ambascerie, se ne possono isolare alcune che hanno una loro consistenza narrativa (un gusto del narrare istintivo nell’Ariosto fin dal piano delle sue esperienze piú dirette) e una tonalità fra drammatica e comica nel rappresentare, con il pimento gustoso di citazioni epiche virgiliane che danno alla vicenda narrata un distacco autoironico, esperienze movimentate e impegnative. Come quella a Ludovico Gonzaga che narra la fuga da Roma, insieme al duca Alfonso travestito da frate, per scampare alla collera di Giulio II[5]. O quella (che serví da base alla memoria per la costruzione di una satira che avremo occasione di ricordare) del 7 aprile 1513 da Roma, al Fantini, in cui l’Ariosto, fra comicità ed amarezza, parla della sua visita al nuovo papa Leone X, prima suo benevolo amico, ed ora, malgrado le apparenze cordiali, a lui indifferente nella sua nuova potenza, e nel suo sontuoso palazzo pontificio che scoraggia il poeta con le difficoltà dell’accesso ai suoi potenti abitatori[6].

Documenti di un chiaro istinto di scrittore che, anche nel margine stretto di un’occasione pratica e di una breve lettera informativa, si rivela sicuro e sempre pronto all’immagine indimenticabile ed ariosa, e documenti insieme di quelle qualità umane di schiettezza, di affabilità e insieme di dignità non arcigna che può celarsi, come nella seconda lettera ricordata, sotto l’apparenza di una specie di «natura sua» di pigrizia e di svogliatezza (la fatica di dover battere a tanti usci e di farsi largo tra tanti postulanti).

Qualità che, insieme a quelle piú propriamente espressive, si dispiegano piú chiaramente, seppure per accenni rapidi e privi di ogni infatuazione di sé e di ogni ipervalutazione della propria serietà e dignità, nel folto gruppo di lettere (sono 156 nel totale delle 214 lettere che ci restano) scritte dalla Garfagnana (nel periodo del suo governatorato in quella regione fra il 1522 e il 1525) e che costituiscono una specie di diario continuo di quella esperienza difficile e gravosa che, mentre da una parte suscitava nell’Ariosto la nostalgia di Ferrara, della donna amata, delle care consuetudini di una vita agevole e propizia al lavoro poetico, dall’altra indubbiamente lo portava a impiegare un’energia, una volitività, una disposizione se non per la politica (che sarebbe parola troppo grossa e sproporzionata) certo per l’amministrazione: qualità che troppo facilmente sembrerebbero aliene ad un ritratto dell’Ariosto sorridente, pacifico, sognatore, tutto astratto dalla realtà e dalle sue imperiose esigenze.

Certo l’Ariosto aspirava ad una vita tranquilla e tutta dedita alla poesia, poteva essere assorbito dalla sua potente attività fantastica fino a quelle forme di distrazione che nell’aneddotica dei primi biografi si consolidano nel ricordo di una sua lunga camminata in pantofole, tutto preso dalle sue idee e dai suoi fantasmi che gli avevano fatto dimenticare di mettersi le scarpe prima di uscire di casa... Ma quando era necessario si rivelava anche uomo capace di azione e di impegno serio in questa, sicché, mentre le lettere ai governanti di Lucca o di Firenze (gli stati confinanti con la Garfagnana estense) rivelano doti di acume diplomatico, queste, e quelle dirette al duca Alfonso, sono dominate da un insistente bisogno di intervenire nella situazione caotica della regione da lui governata, di portarvi ordine, giustizia e pace, di reagire alla terribile condizione di lotte di fazioni rivali, di omertà della povera popolazione impaurita dalle vendette feroci delle fazioni, delle famiglie potenti, dei banditi. E di reagirvi con un piano assai lucido di amministrazione, di repressione decisa dei delitti, di organizzazione di forze militari locali in appoggio al ridicolo numero di balestrieri messogli a disposizione dal duca. Giustizia contro violenza privata, autorità di leggi contro disordine fazioso, contro brigantaggio e contrabbando, e insieme comprensione e indulgenza per i poveri e per le loro trasgressioni piú dettate dal bisogno che da malvagi propositi.

Donde l’affannarsi dell’Ariosto per costituire un piano generale per l’affermazione della legge, della giustizia, dell’autorità del suo signore («io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del S.re nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi habbian paura di me»[7]) e lo svolgersi, benché ostacolato da mille interferenze e dal disinteresse del duca, di un’attività che lo conduce a guidare azioni armate, a trattare con cauta decisione con bande rivali, a colpire i prepotenti.

Donde lo sdegno di queste lettere contro i vari soprusi, contro l’interferenza di altre autorità che mandano assolti i malfattori e annullano la sua azione: specie quelle autorità ecclesiastiche che proteggono i preti faziosi e alleati di briganti (si potrebbe citare, ad esempio, una lettera del 17 aprile 1523).

Donde anche il coraggio rispettoso e fermo con cui egli si lamenta con lo stesso duca delle sue dubbie indulgenze e dello scarso appoggio dato alla propria azione e al proprio decoro di uomo e di governatore ducale («Se tale ignominie si facessine a me solo, non ne farei parola, perché vostra ex.tia mi può trattare come suo servo; ma redundando tali incarichi piú ne l’honor de l’officio e subsequentemente a far le persone con cui ho da praticare piú insolenti verso li lor governi, non mi par di tolerarlo senza dolermine a vostra S...»[8]). Ed egli, pur non atteggiandosi ad eroe – sí che quando la peste minacciò Castelnuovo egli chiese al duca di poter ritornare a Ferrara, e piú volte denunciava come proprio difetto quello di essere «troppo buono»[9], mentre nei confronti degli sfrontati ecclesiastici dichiarava di non essere in grado di opporsi loro piú efficacemente a causa di benefici ecclesiastici di cui godeva e che temeva di perdere –, poteva dolersi ironicamente del fatto che le eccessive raccomandazioni ducali di prudenza lo sforzavano «che s’io fossi un leone io diventassi un coniglio»[10], per poi piú melanconicamente dire al duca, che lo lasciava senza aiuti e lo costringeva a supplire con le buone parole alla mancanza di azioni concrete a vantaggio dei poveri sudditi derubati e offesi da banditi e da prepotenti: «quando io non havrò piú che dire e che havrò totalmente perduto il credito, me ne fuggirò di notte e me ne venirò a Ferrara»[11]. O lo pregava:

che mandi qui uno in mio luogo che habbia miglior stomaco di me a patire queste ingiurie, che a me non basta la patientia a tolerarle [...] dove importa tanto smaccamento de l’honor mio, io vo’ gridare e farne istantia, e pregare e suplicare vostra ex.tia che piú presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna [...][12].

Si sottolineino bene nelle lettere questo sdegno e senso di onore e di dovere, la volitività, l’energia, un senso dell’agire nella realtà di tipo machiavellico, che si ritroverà in certe pieghe dello stesso poema e che qui si traduce in un linguaggio rapido e secco, lucido e deciso[13], e si svolge anche entro narrazioni essenziali e senza il minimo compiacimento oratorio e amplificativo[14]. Ma ciò che piú colpisce nelle lettere dalla Garfagnana è il profondo sentimento di umanità dell’Ariosto, che, pur associandosi al suo senso di giustizia, in realtà appare predominante e, mentre riconduce alla natura gentile e virilmente sensibile del grande poeta, crea effettivamente in molte lettere un Leitmotiv particolare di profonda vibrazione umana sin quasi al margine della tenerezza e della commozione; specie quando l’Ariosto si rivolge al duca o alle autorità confinanti di Lucca o di Firenze per chiedere indulgenza e clemenza verso «poveri uomini» che, per ignoranza e per pressante bisogno, hanno compiuto piccole trasgressioni alla legge, doganale e fiscale, suscettibili di multe e punizioni sproporzionate.

Ogni volta che l’Ariosto scrive suppliche di questo genere la sua voce si fa calda e tenera, con accenti accorati e commossi che traggono avvio da quella stessa parola chiave di «povero», in cui si addensa tanta simpatia e compassione per una condizione cosí angusta e limitata dalla miseria, dall’ignoranza, dalla debolezza indifesa e trascurata da tutti i vari potenti e prepotenti.

Si potrebbero cosí rileggere molte lettere ricche di spunti in questa direzione (ad esempio le lettere 45, 120, 125, 134, 135, 138, 145 dell’edizione dello Stella): in particolare le lettere del 17 ottobre 1523 e del 17 marzo 1524 permettono di accertare questa linea nella sua importanza e nella sua densità di accento, in cui concretezza delle cose e della realtà fa tutt’uno con lo sguardo largo dell’occhio pietoso dell’Ariosto.

Non con ciò aderirei certo alla tesi assurda e grossolana di chi volle spiegare l’Orlando come espressione della situazione dei contadini nel delta del Po o di chi volle caricare il poema di una precisa posizione antiestense, populistica e ribelle. L’Ariosto rimase sempre, come sopra ho detto, un dignitoso esponente della civiltà e del mondo rotante attorno alla signoria estense, né mancò della considerazione realistica e distaccata del popolo come «vulgo» e «populazzo». Ma entro quelle posizioni, a cui per altro si ricollegava il suo stesso senso della giustizia e del bene pubblico, egli aveva una profonda comprensione per l’umile, schietta, povera gente, e l’esperienza del governatorato garfagnino gli permise di metterla in opera e di esprimerla in alcune delle sue bellissime ed umanissime lettere.


1 Si cita dall’edizione a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987.

2 Si cita dall’edizione a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1976.

3 Liriche, in Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954.

4 Notare al v. 42 chiovi: chiodi.

5 L. Ariosto, Lettere, a cura di A. Stella, Milano, Mondadori, 1965, poi in Tutte le opere, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1984, vol. III, da cui si cita: cfr. pp. 152-153.

6 Lettere, ed. cit., pp. 154-155.

7 Lettere, ed. cit., p. 210.

8 Ivi, p. 373.

9 Ivi, p. 246.

10 Ivi, p. 305.

11 Ivi, p. 334.

12 Ivi, pp. 374-375.

13 Si vedano certi brani della lettera del 15 luglio 1523, ivi, pp. 313-316.

14 Cosí nella lettera del 9 giugno 1523, ivi, pp. 292-293.